Siamo abituati a vedere i nostri leader rilasciare dichiarazioni ufficiali sui social e ci aspettiamo lo stesso comportamento da parte dei brand. Nessuno li costringe, ma l'astenersi da una causa può ledere la reputazione aziendale quasi quanto una dichiarazione negativa. Stiamo parlando di brand activism.
Solitamente i grandi brand entrano in campo sui temi più sensibili seguendo una diplomazia aziendale perfettamente studiata e in linea con i valori della propria azienda. Al giorno d'oggi però, il brand activism, ossia l’impegno verso una o più cause di rilevanza sociale, ambientale, politica, economica è richiesto a tutti i brand che vogliano entrare in contatto con la propria community. Bisogna, però, scegliere l'approccio giusto ed evitare di essere tacciati di etica di facciata (washing).
Brand activism: le piattaforme social fanno la differenza nella guerra in Ucraina
Al momento è difficile determinare quali saranno le sorti della guerra in Ucraina, ma una cosa è certa: l'intervento delle piattaforme social sta già facendo la differenza.
Meta ha istituito una task force di fact checking per controllare le informazioni diffuse sul tema, onde evitare la diffusione di contenuti propagandistici, e ha tolto la possibilità agli account russi di fare advertising. Anche Google ha sospeso le ads degli utenti russi: questa manovra ha determinato la perdita della monetizzazione di tutti i contenuti pubblicitari russi.
Twitter, invece, ha limitato l’accesso all’app in alcune zone della Russia, ed ha cercato di dare la maggiore visibilità ai messaggi destinati al popolo ucraino. Mentre YouTube, ha ristretto la visibilità dei contenuti russi in Ucraina per evitare di esporre allo storytelling manipolatorio russo, sospendendo anche la monetizzazione di canali del governo russo.
Oltre alle piattaforme social, ci sono altri brand che stanno offrendo un contributo concreto al popolo ucraino. Come Airbnb che si è messa a disposizione per ospitare i rifugiati ucraini nelle zone limitrofe.
O Tim, Wind, Fastweb e Iliad hanno deciso di azzerare il costo delle chiamate da e per l’Ucraina, per favorire il contatto con chi ha amici e parenti bloccati sotto le bombe russe. O ancora Wizz Air che ha messo a disposizione 100.000 posti gratuiti sui suoi voli continentali in partenza dai paesi confinanti.
Quando il brand activism è guidato dalla brand reputation
Come dicevamo, nessun brand è obbligato a sposare una causa, ma in certi casi, l'astenersi non è contemplato.
Brand come McDonald's e Starbucks, ma anche Coca-Cola e PepsiCo, hanno ceduto alle minacce di boicottaggio dopo quasi due settimane dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina. La sospensione delle loro attività in Russia avrà sicuramente un peso notevole sul bilancio aziendale, ma non è paragonabile al danno d'immagine che avrebbero avuto mantenendo attivi i punti vendita e le forniture.
Brand come Apple, Nike, Shopify e General Electric, hanno già sospeso le loro attività in Russia, ed è un fenomeno che interesserà diversi grandi brand.
Oltre che dalla minaccia di boicottaggio, un ruolo importante è stato giocato dalla pressione dei social. In questo caso non si è verificato un atto di brand activism in quanto non è stato spinto dalle motivazioni giuste, anzi si è trattata di un'azione obbligata onde evitare perseguimenti dell'attività e rischi legali.
I brand si mostrano sensibili alla causa, ma talvolta risulta etica di facciata
Arriviamo ora ad una serie di campagne di comunicazione nate non tanto per far sapere al grande pubblico qual è stato l'impegno concreto del brand nei confronti del conflitto in Ucraina, quanto piuttosto per rendere nota la sensibilità del brand stesso.
L'annuncio dello scoppio della guerra in Ucraina è avvenuto in concomitanza alla Fashion Week a Milano. Il fatto che l'evento in sé non fosse stato sospeso ha sollevato non poche polemiche sia verso l'istituzione in sé che verso stilisti e personaggi dello spettacolo. Di conseguenza alcuni stilisti hanno voluto rendere nota la propria sensibilità, organizzando la sfilata senza musica, come Armani, o dando il tema "guerra in Ucraina" alla propria sfilata, come Balenciaga. Più condivisibile è stata la sua scelta di eliminare tutti i contenuti delle pagine Instagram e Facebook, lasciando in evidenza solo il link ad una raccolta fondi.
Il mondo dello sport ha fatto il suo, escludendo la Russia dalle competizioni internazionali e rinunciando allo sponsor Gazprom.
Il Ministero della Cultura Italiana ha lanciato la campagna La cultura unisce il mondo coinvolgendo musei, biblioteche e istituti culturali statali al fine di ricordare, attraverso le immagini di opere che raffigurato la sofferenza della guerra e l'armonia della pace, la propria solidarietà nei confronti dell'Ucraina.
E poi arriva Pornhub, il sito erotico che ha bloccato l’accesso agli utenti russi che, al posto dei video a luci rosse, vengono indirizzati ad un messaggio pro-Ucraina.
Come evitare il rischio Peacewashing
Come dicevamo è importante per le aziende di oggi dimostrare brand activism e abbracciare le cause che coincidono con i propri valori.
Se si attua, per esempio, una campagna di raccolta fondi è più che giusto e onorevole condividerlo sui propri canali social. Il brand avrà un ritorno positivo in termini di immagine, ma allo stesso tempo avrà contribuito attivamente ad una causa. Se, invece, la campagna in sé non ha un ritorno effettivo in termini di benefici sociali, ambientali, politici o economici si tratta solo di ricerca di visibilità.
Ogni brand deve fare un'approfondita analisi di quali siano i suoi valori, i desideri del proprio target e se ha senso esporsi su una tematica, ma soprattutto, in quale modo. Altrimenti è solo Peacewashing.
Questo tipo di analisi deve essere fatta da un professionista in grado di consigliare come gestire al meglio sia l'emergenza attuale, come la guerra in Ucraina, sia la comunicazione sul lungo periodo, come la gestione del sentiment negativo che avverrà all'aumento dell'inflazione.
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